Alberghi, in Italia le catene sono solo il 4,2%

by Giorgio Maggi | 10 Febbraio 2017 7:16

Gli alberghi di catena in Italia? Ancora troppo pochi, ma qualcosa si muove. «All’estero si incomincia a guardare con molto interesse al panorama italiano e alle possibilità di investimento nel nostro Paese, che non è visto più come quello delle lungaggini burocratiche».
Lo ha sottolineato Giorgio Palmucci, presidente dell’Associazione Italiana Confindustria Alberghi, durante la presentazione della quinta edizione del rapporto Hotels & Chains 2017 realizzato da Horwath Htl.

«Anche se la presenza delle catene in Italia rimane bassa (il 4,2% dei 33.000 totali, contro il 28% della Spagna, il 20% della Francia e il 14-15% di Regno Unito e Germania), la tendenza alla concentrazione è un fenomeno in crescita che si sviluppa in risposta alle esigenze del settore», prosegue Palmucci.

Ecco allora che il  periodo post-crisi ha visto affermarsi alcuni fenomeni che vanno nella giusta dimensione, come il calo delle strutture a 1 e 2 stelle e l’incremento di quelle upscale, oltre all’aumento delle catene (+4.5% di media negli ultimi anni).

«In questi ultimi 5 anni – ha spiegato Giorgio Ribaudo, project manager di Horwath Htl e autore del report – abbiamo registrato un crescente peso dei player nazionali, sia in termini di dimensioni per singolo gruppo che numero di gruppi alberghieri».

Non solo: diversamente da quanto storicamente noto, parrebbe che i gruppi italiani stiano crescendo anche all’estero.

«Abbiamo censito 19 gruppi italiani con hotel gestiti, in locazione o proprietà, anche all’estero – aggiunge ancora Ribaudo – per circa 51 hotel e 5.500 camere fuori Italia».

Risultato: il ranking 2017 dell’hotellerie dello Stivale vede Marriott, dopo l’acquisizione di Starwood, diventare il terzo gruppo con 8.890 camere (dopo Best Western e Accor); UnaAta, dopo il merger, salire al quinto posto con 5.467 camere; mentre Starhotels, dopo l’acquisizione del portfolio Royal Demeures, attestarsi al decimo posto del ranking con 3.671 camere.

«Per quanto riguarda la clientela, la percentuale di arrivi internazionali ha superato di poco quella di viaggiatori domestici (52% contro 48%)», segno del forte appeal che l’offerta ricettiva tricolore riesce a svolgere sulla domanda straniera più qualificata.

Insomma, se la ristrutturazione che negli ultimi anni ha avvicinato l’offerta italiana a quella internazionale, con la progressiva scomparsa dell’albergo economico insidiato da soluzioni alternative di ospitalità (in Italia, solo per fare un numero, esistono circa 3,5 milioni di appartamenti vuoti), ha avuto buon gioco, lo si deve anche alle mutate esigenze della domanda.

«Essere legati a un brand facilita la riconoscibilità e accresce la possibilità di arrivare a diversi segmenti della domanda, con un marchio che è anche evocatore dell’esperienza che si vuole offrire al cliente». Perché, come ha sottolineato Palmucci, l’albergo è il primo luogo in cui il turista incontra il lifestyle italiano.

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