«Mentre il mondo tace, noi salpiamo» è lo slogan della Global Sumud Flotilla, la flotta civile che ha iniziato il suo lento viaggio verso Gaza, con il suo carico di aiuti umanitari per la popolazione palestinese. Nel frattempo, a Washington, pianificano il futuro. Un futuro radioso per Gaza, ma senza i palestinesi.
Storie da libro Cuore e da episodio di Black Mirror: da una parte l’impegno a sostegno di una popolazione allo stremo; dall’altra, una visione distopica del futuro, dove un popolo viene spostato per trasformare la sua terra in una nuova Dubai.
Le prime indiscrezioni e il video sulla Riviera di Gaza, circolato mesi fa, sembravano “un’americanata”. Ma quando c’è di mezzo il presidente statunitense, Donald Trump, la realtà si trasforma in tragica parodia.
IL PROGETTO
Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation Trust, o Great Trust. È il nome del piano per trasformare la Striscia di Gaza in una riviera di lusso e hi-tech, delineato in un documento di 38 pagine che circola alla Casa Bianca e che il Washington Post è riuscito ad avere. La «Gaza Riviera» verrebbe posta sotto amministrazione fiduciaria statunitense per almeno 10 anni.
Gli oltre 2 milioni di abitanti verrebbero trasferiti «temporaneamente» e «volontariamente» in altri Paesi o in zone «delimitate e sicure» dentro Gaza fino alla fine dei lavori di ricostruzione. Ai proprietari terrieri verrebbe dato un “portafoglio digitale” per crearsi una nuova vita altrove o comprare un appartamento in una delle otto “città intelligenti” che verranno create a Gaza.
Ogni palestinese che lascerà la Striscia riceverà 5.000 dollari, sussidi per l’affitto per 4 anni e per il cibo per un anno: secondo gli autori del documento, gli incentivi sarebbero sufficienti a convincere “il 25 per cento” della popolazione ad andarsene. Il piano stima che ogni partenza individuale da Gaza farebbe risparmiare al fondo 23.000 dollari, rispetto al costo degli alloggi temporanei e di quelli che il fondo definisce servizi di “supporto vitale” nelle zone sicure per coloro che rimangono.
CHI HA PARTECIPATO
Negli ultimi mesi, quando la stampa ha iniziato a interessarsene, in molti hanno preso le distanze dal progetto. Il Tony Blair Institute, citato dal Financial Times perché alle discussioni sul piano avrebbero partecipato anche due membri del suo staff, ha precisato di non aver mai «appoggiato l’idea di spostare gli abitanti». La pianificazione finanziaria è opera di un gruppo che lavorava al Boston Consulting Group, ma la società di consulenza ha dichiarato che il modello è stato portato avanti all’insaputa della dirigenza e che chi ha partecipato allo studio è stato licenziato.
Dietro all’iniziativa, ci sarebbero gli stessi imprenditori israeliani che hanno messo insieme la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), l’organizzazione statunitense responsabile della caotica distribuzione degli aiuti nella Striscia, con centinaia di palestinesi uccisi dai militari nei pressi dei centri.
L’INCONTRO ALLA CASA BIANCA
Mercoledì scorso, Trump ha tenuto una riunione alla Casa Bianca per discutere della fine alla guerra, che dura ormai da quasi due anni, e di cosa accadrà in futuro. Tra i partecipanti c’erano il segretario di Stato, Marco Rubio, e l’inviato speciale del presidente per il Medio Oriente, Steve Witkoff; l’ex primo ministro britannico, Tony Blair, le cui opinioni sul futuro di Gaza sono state richieste dall’amministrazione, e il genero di Trump, Jared Kushner, che ha gestito gran parte delle iniziative del presidente durante il suo primo mandato in Medio Oriente e ha ampi interessi privati nella regione. Non è stato reso noto alcun resoconto della riunione e non sono state annunciate decisioni politiche, ma Witkoff, la sera prima dell’incontro, ha affermato che l’amministrazione ha «un piano molto completo».
UN PIANO ALLETTANTE
Forse l’aspetto più interessante è che il piano si propone di fare a meno di finanziamenti dal governo statunitense e di offrire profitti significativi agli investitori. A differenza del controverso Ghf, che si avvale di appaltatori privati armati statunitensi per la sicurezza per distribuire cibo, il piano fiduciario «non si basa su donazioni», si legge nel prospetto informativo. Sarebbe invece finanziato da investimenti pubblici e privati in quelli che definisce “mega progetti”, da impianti per veicoli elettrici e data center a resort sulla spiaggia e grattacieli residenziali.
I calcoli inclusi nel piano prevedono un ritorno quasi quadruplo su un investimento di 100 miliardi di dollari dopo 10 anni, con flussi di entrate “autogenerati” continui. Alcuni elementi della proposta erano stati riportati per la prima volta dal Financial Times.
LONTANO DA GAZA
L’allontanamento dei palestinesi da Gaza – attraverso la persuasione, la compensazione o la forza – è stato oggetto di dibattito nella politica israeliana fin da quando Gaza fu strappata al controllo egiziano e occupata da Israele nella guerra del 1967. I coloni israeliani vissero accanto ai palestinesi fino al 2005, quando un accordo di pace ne impose la partenza. Il completo ritiro israeliano portò a una lotta di potere tra l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e Hamas, che riuscì a strappare il controllo di Gaza dopo aver ottenuto la maggioranza parlamentare alle elezioni del 2006, le ultime tenutesi nell’enclave.
Questo scomodo status quo si mantenne nonostante numerosi e brevi scontri a fuoco tra Israele e Hamas fino all’attacco del 2023, quando migliaia di militanti violarono la barriera di sicurezza israeliana che circonda Gaza da tutti i lati, tranne che dal suo stretto confine meridionale con l’Egitto, invadendo le basi delle forze israeliane e uccidendo civili.
Le Nazioni Unite stimano che il 90% delle abitazioni nell’enclave sia stato distrutto. La questione di cosa fare della popolazione di Gaza mentre viene resa abitabile e chi la governerà in futuro è centrale, indipendentemente dal piano adottato. «La portata della distruzione è enorme e diversa da qualsiasi altra cosa abbiamo visto prima, persino nel contesto di Gaza”, ha affermato Yousef Munayyer, ricercatore senior presso l’Arab Center di Washington, parlando con il Washington Post. «L’urgenza è estrema. La portata del progetto di ricostruzione è estrema. E la questione politica è più incerta che mai».

