Le 10 regole del coaching per top manager

Le 10 regole del coaching per top manager
07 Ottobre 07:00 2025

Come fare squadra ed entrare nella testa di un team. Cioè, il vademecum del coaching applicato alle aziende in 10 lezioni, senza essere per forza Phil Jackson, il tecnico Nba più vincente di sempre, che su questo caposaldo ha costruito la sua filosofia. Certo, i pianeti erano e restano diversi, visioni e soluzioni finali affondano le radici in assunti distanti tra loro, ma i punti di contatto tra mondo delle imprese e dello sport non mancano e alcuni concetti base combaciano alla perfezione: leadership e identità del team, tanto per citarne due.

Una cosa è sicura: il coaching aziendale è uno strumento imprescindibile in quasi tutti gli ambiti, che vede attivi professionisti di assoluto livello: li chiamano mental coach, termine già abbondantemente inflazionato anche in campo ludico. Obiettivo: favorire la crescita professionale del team, il miglioramento delle performance e lo sviluppo della leadership e restare al passo con i ritmi sostenuti del terzo millennio.

Ora mettiamo queste idee a specchio con quelle di Jackson, non a caso maestro di Michael Jordan, totem assoluto dell’Nba, ma anche un mostro di versatilità e un Mvp (most valuable player, ndr) anche nella vita. I suoi insegnamenti sono già un paradigma aziendale: importanza della crescita personale, creazione di un senso di squadra e di trasparenza. Input, questi, di un programma che ha fatto scuola: pensare autonomamente, trovare soluzioni in campo, promuovere la solidarietà e un potere decisionale collettivo per sviluppare un’identità di squadra superiore alla somma dei singoli.

Così Jackson ha insegnato a Jordan “come fidarsi dei compagni”. Perché in un qualsiasi team è il più bravo a mettersi al servizio degli altri e non viceversa, chiedete lumi a un top manager qualsiasi. Per cui se trovate una vaga assonanza con le righe sopra, non vi sbagliate: vi basterà cambiare vocaboli e contesto e il prodotto resterà identico.

Visione, senso di appartenenza e alchimia di team. Paragonare un’azienda a una squadra sportiva è un modo intelligente per comprendere dinamiche di leadership, collaborazione e performance. Ecco the pillars of the earth su cui fondare un’azienda solida e flessibile. Un vero e proprio decalogo del coaching da ingoiare e mandare a memoria. In fondo lo sport altro non è che una meravigliosa metafora della vita.

1. OBIETTIVI CHIARI E CONDIVISI

Niente fronzoli e obiettivi concreti, concertati tra il manager e l’azienda. E a cascata sui vari team. Il coaching ha poche regole, ma precise, da cui non si deroga. E i target non possono non essere allineati con le esigenze della società.

Insomma, per avere una visione a lungo termine il ceo o gm deve condividere con la proprietà un progetto comune. Esattamente come un allenatore definisce un sistema e una strategia di gioco. Perché tutti devono essere consapevoli di dove si va e come. Dritti al traguardo.

2. LA PERSONA AL CENTRO

Principio inderogabile del coaching aziendale: ogni individuo ha un potenziale da esprimere e il manager lavora per sviluppare l’autoconsapevolezza, la fiducia e la capacità decisionale. Trarre il meglio da ogni singolo elemento per valorizzarne il talento. Si chiama “maieutica” e vale tanto in un’impresa, quanto nello sport.

Claudia Mancinelli, foto fornita da lei

Un concetto definito in tutta la sua complessità da Claudia Mancinelli, prima atleta di ginnastica ritmica, poi allenatrice di Sofia Raffaeli, Bronzo alle Olimpiadi di Parigi: «Mi piace vedere il miglioramento esponenziale nelle atlete più piccole, tirare fuori il massimo delle potenzialità. Sta a me entrare in sintonia con loro e capire quale sia il lavoro psicofisico adatto. Più di ogni altra cosa, quindi, conta la gestione della persona, del capitale umano, conta come lavori sulla loro testa, come riesci a entrarci, anche se prima preferisco fare breccia nel cuore. Insieme al corpo devi allenare la mente ed evitare che si stanchi: per domarla devi lavorarci tanto, grazie anche all’ausilio di specialisti e psicologi dello sport che aiutano ad affrontare dinamiche ben precise. Perché un talento non adeguatamente sostenuto non porta risultati».

Risultati, appunto. Termine che rimbomba da mane a sera nella mente di qualsiasi capitano d’azienda.

3. FIDUCIA RECIPROCA

Riservatezza e assenza di giudizio. Su queste basi deve fondarsi la relazione tra coach e coachee, cioè il destinatario del percorso. La fiducia reciproca è fondamentale per creare uno spazio sicuro dove esplorare limiti, risorse e obiettivi.

Ferdinando De Giorgi Credit Ladv

Coach vuol dire fiducia, quindi. E chi può argomentarla meglio di Ferdinando De Giorgi, fresco campione del Mondo con la nazionale maschile di volley (quinto titolo iridato in carriera, da tecnico e giocatore)? «Un allenatore – ci ha raccontato al ritorno della squadra a Fiumicino – deve portare i suoi atleti a sapere cosa fare e ad avere le idee chiare nei momenti difficili. Si deve dare fiducia, si deve dare autonomia. E può sembrare paradossale, ma a me piace anche vedere i ragazzi in difficoltà e poi capire come ne escono fuori con il carattere e ritrovano gli equilibri. La vera squadra la vedi lì».

4. ASCOLTO ATTIVO

Un vero leader non dà soluzioni, ma stimola la riflessione attraverso domande mirate e, in qualche caso, provocatorie. L’ascolto attivo (una tecnica per comprendere il messaggio, le emozioni e le intenzioni dell’interlocutore, ma senza giudicare) è uno strumento chiave per far emergere nuove prospettive.

Essere un coach, dunque, significa andare oltre gli schemi, il vangelo del basket. Marco Calvani, allenatore della Virtus Gvm Roma 1960 e storica figura della palla a spicchi, ci apre le porte del suo laboratorio: «Ci sono mille sfaccettature da prendere in considerazione oltre alla propria area di competenza. Perché prima dei giocatori vanno gestite le persone, come in qualsiasi altro campo. Dobbiamo ricordarci che abbiamo a che fare con ragazzi, non con le lettere che indicano gli schemi di attacco e difesa, “X” o “O”. E a volte ci si dimentica di questo aspetto. Soprattutto quando si trovano nei momenti cruciali di una partita, quando intervengono fattori di carattere emozionale e di pressione psicologica che sono materia di un coach».

5. RESPONSABILIZZARE

Parola d’ordine: responsabilizzare. È uno dei verbi sui quali declina il proprio lavoro un manager per plasmare un modello di business e una squadra vincente. Perché, in ogni caso, il singolo resta protagonista del suo sviluppo: l’autonomia decisionale, infatti, viene incoraggiata per promuovere empowerment e ownership, consapevolezza e padronanza di sé.

Marco Calvani Virtus Roma, foto uff st Virtus

6. LEADERSHIP E TEAMWORK

Il coaching è orientato a rafforzare competenze trasversali come leadership, comunicazione, componente emotiva e teamwork. E tenere sotto controllo l’aspetto emotivo è fondamentale: vietato assentarsi anche per un istante, ogni distrazione è fatale, avverte Mancinelli: «L’atleta non è un robot, ma il discorso riguarda pure i coach: anche io devo fare un grande lavoro su me stessa, andare oltre le mie capacità e migliorarmi. Non a caso, spesso lo sport è una rappresentazione della vita, sembrano vite parallele».

Gestire un gruppo di lavoro, insomma, significa caricarsi un grande peso sulle spalle, ma accettando di farsi aiutare, spiega Calvani: «Esercitare la leadership significa anche demandare e delegare, non si può pensare di fare tutto da soli. Restare con il radar sempre acceso è un dovere, ma è giusto dare importanza ad altri membri del team, supportarli e mai discutere con loro in pubblico, per non correre il rischio di sminuirli».

7. MISURABILITÀ E IMPATTO

L’impatto di un coach viene monitorato attraverso indicatori di performance, feedback e follow- up. L’obiettivo finale è tradurre la crescita individuale in valore per l’organizzazione.

8. CONTESTO ORGANIZZATIVO

Il coaching non è un fenomeno isolato, ma si inserisce nel contesto culturale e strategico dell’azienda. Può supportare processi di cambiamento, gestione dei talenti, passaggi generazionali.

È la ricetta vincente cucinata da De Giorgi. Anche se, confida, per educare un team vincente e dargli un’anima non ci sono particolari segreti: «Conta la crescita tecnica, ma anche la parte “valoriale”, intesa come forza del gruppo, che ha una grande capacità di risollevarsi e di migliorarsi. Per centrare un obiettivo serve l’apporto di tutti e questi sono ragazzi speciali, non perché siano perfetti, ma perché non lasciano nessuno indietro. L’allenatore? Deve semplicemente limitarsi a non fare danni».

9. ETICA PROFESSIONALE

I coach professionisti seguono un codice etico, che garantisce standard elevati di professionalità e integrità. Le imprese hanno una cultura aziendale solida, ognuno ha competenze e responsabilità distinte e i ruoli sono ben definiti. Esattamente come all’interno di un team sportivo, dove lo spirito di squadra e lo spogliatoio unito sono le basi indispensabili per arrivare a dama. Sapendo che essere agili, saper innovare e cambiare rapidamente strategia sono armi formidabili per puntare al successo.

10. IL CODICE VELASCO

Julio Velasco è “l’eroe dei due mondi”, la sintesi perfetta tra sport e impresa: uomo di rara intelligenza, tra i più grandi allenatori di volley (ma non solo) della storia e punto di riferimento nel coaching aziendale. Visione, leadership e mentalità vincente sono medaglie appuntate sul petto dell’argentino di La Plata, che nel giro di un anno ha centrato l’Oro olimpico e il Mondiale con la nazionale femminile.

Alcune frasi di Velasco sono entrate di diritto nel gotha degli “insegnamenti manageriali”, a partire da «La cultura degli alibi è il primo nemico da sconfiggere», un invito ad assumersi le proprie responsabilità, evitando uno degli sport preferiti dagli italiani: lo scaricabarile.

«Una squadra non è la somma dei migliori, ma la somma di quelli che collaborano meglio» è la stella polare del team coaching, per indicare che non è il singolo talento a fare la differenza, ma l’unione di intenti.

E ancora: «Non è importante dire cose nuove, ma farle arrivare alle persone»: cioè il valore non sta nella novità del messaggio, ma nella sua chiarezza e nel suo impatto. «Non basta sapere cosa fare, bisogna sapere come farlo», è infine la variante del jolly calato sul tavolo nel momento decisivo della finale iridata, giocata un mese fa dalle sue ragazze: «Fate quello che vi pare, ma fatelo bene». Non serve ricordare com’è finita.

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L'Autore

Fabrizio Condò
Fabrizio Condò

Giornalista professionista, innamorato del suo lavoro, appassionato di Storia, Lettura, Cinema, Sport, Turismo e Viaggi. Inviato ai Giochi di Atene 2004

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