Code, disagi e disservizi:
il mito di New York vacilla

Code, disagi e disservizi:<br> il mito di New York vacilla
17 Maggio 07:00 2024 Stampa questo articolo

C’era una volta l’America. Parole e musica di Federico Rampini, editorialista del Corriere della Sera da New York, uno che dell’argomento se ne intende eccome. Dai tempi biblici trascorsi dai turisti provenienti dall’Italia al controllo passaporti alla debolezza cronica di infrastrutture, servizi pubblici e trasporti, testimoni di una discesa senza freni.

Eppure, nonostante tutto, la Grande Mela tira ancora, soprattutto all’estero: «I flussi di visitatori – scrive infatti Rampini – sono sopra i massimi storici pre-pandemia. Chi se ne importa se stanno due ore in fila al controllo passaporti?». Why?

Perché davvero devono trascorrere almeno due ore prima che un viaggiatore in arrivo riesca a uscire dal labirinto del Jfk, prima di affrontare il traffico tentacolare di New York. È uno dei sintomi principali – spiega il noto cronista – che «lo stato dell’America non è esaltante, i problemi si accumulano da tempo». Un dato esemplifica bene la situazione e riguarda «chi viaggia con il volo Emirates che parte da Malpensa alle quattro del pomeriggio e atterra qui alle sette di sera locali al terminal 4.  Al controllo passaporti si crea una fila inverosimile, assurda, a volte ci sono centinaia di passeggeri in attesa e i poliziotti allo sportello si contano sulle dita di una mano. A poco serve l’intelligenza artificiale, l’uso di macchine per la lettura digitale o il riconoscimento delle pupille, il fattore umano blocca tutto».

La denuncia dell’inefficienza americana da parte di chi la vive e soffre ogni giorno passa attraverso una serie di disservizi ai quali neppure il cambio della guardia alla Casa Bianca ogni 4 anni sembra in grado di porre rimedio. Ad esempio, «New York è nel mondo intero – denuncia Rampini – l’unica grande metropoli di queste dimensioni a non avere un vero collegamento diretto fra il centro e i suoi aeroporti». Solo a leggerlo sembra incredibile, ma è così, anche a fronte di decine di miliardi di denaro pubblico spesi per migliorare la viabilità: si vive in una giungla di cantieri.

E l’Alta Velocità ferroviaria? Altra nota dolente. Il progetto è in stand by da vent’anni, al contrario della Cina, dove invece è in piena evoluzione.

Possibile che nessuno abbia mai fatto scattare l’allarme? Non è proprio così. «Arianna Huffington (la fondatrice dell’Huffington Post) scrisse un saggio intitolato America, paese del Terzo mondo – racconta Rampini – tema di cui si impadronì da destra Donald Trump: nei suoi comizi del 2016 cominciò a dire che gli aeroporti americani sembravano quelli del Terzo mondo, se paragonati agli scali del Golfo». Risultati? Zero, se è vero che gli interventi di Biden non hanno sortito effetto, come conferma il recente crollo del Ponte di Baltimora.

Insomma, quella che un tempo era una nazione all’avanguardia nel trasporto ferroviario, ora accusa un ritardo pesantissimo. I problemi, per certi versi, sono gli stessi che rimproveriamo all’Italia, Rampini li elenca: «Ipersindacalizzazione, dirigenti che non esercitano autorità sui dipendenti, normative ambientaliste che paralizzano i cantieri. Su tutto regna una classe politica che è troppo impegnata da guerre ideologiche tribali, per occuparsi di cose terra a terra come far funzionare una metropolitana, un treno o un aeroporto».

Segni tangibili di un degrado che, come al solito, alimenta il ritornello “tutto il mondo è paese”. Ma questo non può né deve essere una consolazione. Con buona pace del sogno americano.

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L'Autore

Fabrizio Condò
Fabrizio Condò

Giornalista professionista, innamorato del suo lavoro, appassionato di Storia, Lettura, Cinema, Sport, Turismo e Viaggi. Inviato ai Giochi di Atene 2004

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