La ricetta Usa del travel: intervista a Terry Dale di Ustoa

06 Giugno 07:10 2024 Stampa questo articolo

Fondata quasi 50 anni fa, Ustoa, United States Tour Operator Association, è tra le organizzazioni più rappresentative dell’industria del turismo d’Oltreoceano con le sue 55 aziende associate che, a loro volta, rappresentano 165 brand. Il presidente, Terry Dale, è intervenuto alla Conferenza del turismo inbound che si è tenuta a Pechino la scorsa settimana e L’Agenzia di Viaggi Magazine lo ha intervistato.

Nel suo discorso a Pechino ha detto che a fare il turismo sono le persone, non i governi.
«I governi danno le opportunità e affrontano i problemi. Per esempio, è quello che succede con le procedure per i visti. Noi dobbiamo adeguarci e quindi il pubblico e il privato possono lavorare insieme. Possiamo rendere più semplice viaggiare. Ma viaggiare è una cosa sana adesso».

Ma visto che la politica aiuta il turismo, non pensa che il turismo a volte aiuti la politica? Ad esempio, alcuni conflitti possono essere superati dall’incontro fra le persone?
«Assolutamente sì! Ho visto molti casi durante la mia carriera di situazioni nelle quali il turismo ha fornito delle opportunità. Faccio solo un esempio, e non so se sia il migliore possibile. A Cuba, durante l’amministrazione Obama, c’era la volontà di liberalizzare i viaggi ai cittadini statunitensi. I nostri soci hanno facilitato questo intervento. Quindi, si può fare. Le sfide dei governi sono assolutamente reali. Ma questo non vuol dire che le imprese private non possono influenzare, fare anche cultura del cambiamento per raggiungere i risultati».

Ci troviamo in Cina, un Paese che gli americani desiderano molto visitare. Ma amano anche l’Europa.
«Verissimo. Ma penso che ci siano alcune grandi differenze. L’Europa è vista dai viaggiatori americani facilmente raggiungibile. Magari non possono farlo tutti, ma si può pensare di fare un salto e passare un weekend a Parigi o a Roma. La Cina è impegnativa anche solo per il tempo necessario e per il costo. Ma sono profondamente convinto che il piacere di potere tornare in ufficio e raccontare di essere stati a Pechino una settimana prima, credo che questa cosa abbia un grosso peso. Perché il viaggiatore americano vuole scoprire, esplorare sempre qualcosa di nuovo. E penso che la Cina, per noi americani, rappresenti un potenziale di enorme valore».

Sappiamo che molti americani non hanno il passaporto. Non lo usano perché preferiscono viaggiare all’interno degli Usa.
«Stiamo migliorando. Sì, potrebbero essercene molti di più ma in effetti i passaporti sono molti e stanno crescendo. Le prospettive sono buone ma non ci sono ancora grandi numeri. Dobbiamo lavorarci».

Parliamo dell’Europa. So che la sua società ci lavora molto. Parliamo di un continente con tanti Paesi che, però, negli States non conoscono singolarmente. Pensano all’Europa come un unico Stato, senza distinguere tra Francia, Italia e così via. E come percepiscono l’Italia?
«Cosa posso dire? Ogni anno facciamo la nostra indagine su qual è la destinazione del momento e l’Italia, ogni anno, è in cima alla classifica. Non sorprende perché la gente, la cultura, la cucina… tutto quello che riguarda l’Italia è perfetto. L’Italia, dal nostro punto di vista, è sempre la chiave del successo».

Nei vari Paesi europei ci sono target di turisti differenti. In alcuni Paesi c’è più richiesta di mete culturali mentre altri cercano il divertimento sfrenato e la movida.
«Si, abbiamo 148 destination marketing organization, in tutto il mondo. Noi abbiamo la responsabilità di formare e, si spera, motivare un dmo a lavorare con i nostri soci sia che trattino la Croazia, la Colombia o Pechino. Quindi, il nostro compito non è di orientare ma di dire: queste sono le possibilità. Voi dovete scegliere quello che si adatta meglio al vostro business. Quindi, provo la Croazia? Provo la Colombia? L’Italia sappiamo che è un prodotto molto conosciuto ed è un bestseller».

Ma cosa si può fare per ampliare la propria offerta? E dato che vi tocca formare i turisti, è difficile farlo con le vendite online? Per dirla meglio: le agenzie di viaggi sopravvivono negli Usa?
«Sì, certo! Adesso, non so quanti siano qui a quest’evento, ma posso immaginare che la metà dei delegati siano agenti di viaggi. Il 68% dei nostri pacchetti vacanza è venduto da agenzie. Quindi, i consulenti di viaggi sono la chiave del nostro successo. Ecco, gli agenti di viaggi, che adesso chiamiamo consulenti di viaggi, hanno una storia. Abbiamo bisogno di loro per vendere i nostri prodotti. E penso che siano importanti oggi più di 10 anni fa».

Quindi l’e-commerce non le sta uccidendo?
«No. Con un volo, un albergo o qualunque altra cosa, tutto ricade sulla tua responsabilità. Se prenoti con un consulente o un tour operator, hai qualcuno al quale puoi rivolgerti per dire: bene, questo è il problema. Puoi aiutarmi? Se invece ti organizzi il viaggio per conto tuo, comprando online come fanno tanti, stai per affrontare dei rischi».

In Italia si è sviluppato il turismo dello shopping. Lo scorso anno abbiamo avuto una crescita di arrivi a Milano, che non è una meta del turismo tradizionale. Cosa rappresenta lo shopping tourism nella cultura del viaggiatore americano?
«Posso dire che la cultura dello shopping per il viaggiatore americano è abbastanza importante, a loro piace. Io faccio ogni anno una riunione all’estero e quest’anno siamo andati in Portogallo, lo scorso anno in Turchia. E uno dei commenti più costruttivi che riceviamo dai consiglieri d’amministrazione che partecipano a quest’incontro, è che non c’è mai abbastanza tempo per fare shopping. Anche i tour operator amano andare in giro a fare acquisti! E noi non siamo bravi a dar loro abbastanza tempo. Ma lo shopping è importante per tutti, clienti e tour operator».

Qui in Cina avete sottoscritto degli accordi. Che accordi erano?
«Ricorda la “diplomazia del ping pong”? Quando un presidente americano (era Nixon) venne in Cina per la prima volta? Viste le nostre relazioni, abbiamo concordato che la Cina sarà sponsor della nostra campagna di marketing quest’anno. E loro saranno anche sponsor della nostra conferenza annuale. Quindi, loro si sono fatti decisamente avanti per dire: vogliamo rientrare nella partita! E capire come funziona».

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Giampiero Moncada
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